LA FINE DEL LAVORO

Segreteria nazionale confederale 31/08/2012 11:21:56

Se dovessimo oggi domandarci “di quali competenze e professionalità ci sarà bisogno nel 2020 in Italia ?” credo che ben poche persone si sentirebbero autorizzate a dare una risposta ( e a credere in ciò che dicono).
Nel 1995 Jeremy Rifkin scrisse un ponderoso volume intitolato “La fine del lavoro”, individuando alcuni dei cambiamenti più rilevanti che il modello economico andava strutturando. Poi seguirono altri libri, non
meno importanti: “ l’economia all’idrogeno” e “l’era dell’accesso”.
Quelli che sembravano  tre titoli, oggi, diventano realtà.
La struttura della cosiddetta “globalizzazione” include alcuni processi caratteristici riassumibili in:
- Localizzazione delle unità produttive secondo regimi di convenienza economica
- Finanziarizzazione dei processi economici
- Sviluppo del carattere speculativo dei processi finanziari
Mentre la localizzazione delle unità produttive in aree di massima convenienza genera nuove classi di lavoratori  e intere popolazioni si trasformano in “classe media consumatrice” , con tutti i relativi
cambiamenti sociali caratteristici dello sviluppo economico-industriale, nelle aree a delocalizzazione, ovvero a processo maturo, si genera il procedimento opposto, ovvero la pauperizzazione della classe media a cui fa da contraltare lo smantellamento dei servizi di supporto e di assistenza sociale ormai strutturalmente superflui alle condizioni economiche di riferimento.

Il che significa che non ha senso, per la conduzione economica,investire o spendere risorse in servizi pubblici (trasporti, sanità,assistenza sociale)  quando gli stessi non determinano miglioramenti
della produzione o erogazione di prodotti e servizi. 

Il fenomeno è più accentuato in Paesi ad alta denatalità, in cui il tasso di invecchiamento della popolazione definisce sia il calo dei cicli di produzione, sia il crollo dei consumi a cui fa riscontro –positivamente per il quadro economico – un elevato tasso di risparmio individuale e familiare.
Così mentre i modelli esperienziali e conoscitivi si spostano seguendo i percorsi della produzione, nelle aree in cui avvengono i processi di delocalizzazione il processo di ricollocamento delle competenze può essere (anzi è) particolarmente complesso e doloroso.
Ci troviamo infatti quasi sempre di fronte a una popolazione in età lavorativa che gode di competenze obsolete rispetto alle necessità cogenti, come amanuensi precipitati nel’era informatica. Ci troviamo
con una “popolazione inutile” , numericamente in esubero rispetto alle risorse accessibili, prive di reddito, a basso contenuto di consumi , che tendono ad incidere pesantemente nel bilancio sociale, bilancio che a sua volta viene rapidamente decurtato da chi lo amministra.

Il fenomeno conduce inevitabilmente a migrazioni delle competenze e processi anche violenti di trasformazione del modello sociale e politico di riferimento, dove crescenti sacche di povertà vengono
controllate con un apparato assistenziale “volontario”, ovvero non incidente nel computo della spesa sociale.
Il modello opera con tagli e riduzioni di servizi mirati negli ambiti dei

- Trasporti pubblici (riduzione dei servizi e incremento dei prezzi )
- Sanità (accorpamento dei servizi, partecipazione agli oneri di spesa da parte degli assistiti)
- Scuola (abbattimento dei contenuti nelle scuole di massa, poche eccellenze universitarie)
- Assistenza (abolizione delle risorse a favore di malati gravi,terminali e cronici)
In questo modo il & ldquo;corpo sociale” torna ad assumere un tono “naturale”, un modello Darwiniano della società,  in cui la capacità di adattamento (individuale o di gruppo) determina la sopravvivenza.
Con la progressiva dismissione delle unità produttive  (in Italia abbiamo assistito in meno di dieci anni alla cancellazione di interi settori produttivi quali siderurgia, cantieristica, tessile, chimica,farmaceutica, estrattiva, metal-meccanica) e con la rapida trasformazione del settore primario, agro alimentare, dove si esalta la contribuzione pubblica in luogo della produzione economicamente sana, il criterio della “fine del lavoro” è ampiamente definito.
Il criterio lascia sul campo uno stuolo di pensionati, favoriti dal precedente sistema contributivo, e un ben maggiore numero di ex lavoratori privi delle certezze o degli ancoraggi che hanno garantito i loro predecessori.

Il sistema trova sul campo intere nuove generazioni prive di competenze, culturali e teoriche prima ancora che pratiche, per affrontare “un mondo del lavoro senza lavoro”.
Se dovessimo oggi domandarci “di quali competenze e professionalità ci sarà bisogno nel 2020 in Italia ?” credo che ben poche persone si sentirebbero autorizzate a dare una risposta ( e a credere in ciò che dicono).
Ci sarà bisogno di un’ampia cultura generale o di conoscenze iper-specialistiche ?
Ci sarà bisogno di competenza tecnologica o semantica ?
Quali servizi e prodotti saranno venduti, e a quali mercati ?
Come avverrà il processo di informazione, di comunicazione, di vendita ?
Quali “mezzi” saranno usati e con quali livelli di fidelizzazione della clientela ?
I processi  di pagamento saranno tutti finanziari ?
Esisterà ancora la carta moneta ?
In che lingua si farà comunicazione ?
L’Europa sarà ancora come quella che osserviamo ?
I social-network sostituiranno le comunità ?
La domanda riguarda uno scenario a 7 anni da oggi, non a cento, eppure sembra già particolarmente complesso immaginare di poter dare risposte corrette e adeguate, anche perché i processi di cambiamento partono lentamente ma hanno la tendenza a svilupparsi geometricamente.
Se vi sembra che stia parlando di fantascienza fate un salto indietro: alla fine del millennio  avreste immaginato che oggi il mondo sarebbe stato così ?  Che avrebbe presentato le complessità economiche e
sociali che riscontriamo ? Che vi sareste trovati in imbarazzo a suggerire  a vostro figlio quale percorso di vita affrontare ? Che il 30% e più degli italiani fosse considerato povero ? Che interi settori
produttivi fossero assenti ?
Per affrontare il futuro bisogna prima saperlo immaginare. Se riteniamo che il futuro sarà simile al presente abbiamo perso in partenza la sfida.


Gilberto Borzini

 

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